Tutti pazzi per la Brexit Intervista alla compagnia VicoQuartoMazzini
- Giacomo Tarsia, Alessandra De Letteriis
- 22 feb 2017
- Tempo di lettura: 3 min

I Vico Quarto Mazzini sono Gabriele Paolocà e Michele Altamura, diplomatisi alla Civica Accademia d’Arte drammatica “Nico Pepe” di Udine, divenuti una compagnia nel 2010. Sono interpreti, autori e registi dei propri spettacoli.
Il 17 Febbraio i Vico Quarto Mazzini hanno presentato al teatro Kismet lo spettacolo Little Europa, una riflessione sulle motivazioni che spingono l’essere umano a costruire sistemi sociali e sulle motivazioni che poi lo spingono a distruggerli. Little Europa trae spunto dalla pièce Il piccolo Eyolf di Henrik Ibsen, un dramma concentrato sui colloqui tra un marito e una moglie che, troppo impegnati a rinfacciarsi le proprie colpe, non si accorgono che il loro figlio sta annegando in mare. Attraverso la crisi di un rapporto lo spettacolo racconta la libertà e la gabbia dell’esser se stessi di fronte all’altro, delle regole e delle sue trasgressioni. Le responsabilità che questa Europa ci chiede per crescere e diventare un organismo di “sana costituzione” sono le stesse che vengono richieste a dei genitori per formare un individuo.
Perché avete scelto proprio questo dramma?
Perché siamo partiti da un lavoro su Ibsen per radio 3 abbozzando un radiodramma e ci ha molto colpiti il dramma scritto da questo autore norvegese, abbiamo cercato nell’analisi del testo di parlare della contemporaneità e il rapporto di coppia di cui Ibsen parla era una grande metafora del rapporto all’interno dell’unione europea.
Vi identificate con la visione del matrimonio descritta da Ibsen? Si, lì c’è il racconto di un’impossibilità concreta di stare insieme, quel matrimonio tra Rita e Alfred è come il matrimonio impossibile tra nord e sud Europa, una rappresentazione della diversità tra i popoli mediterranei e i popoli scandinavi, hanno fatto questo tipo di lavoro per cercare di scavare in quel tessuto già presente nel testo ibseniano.
Cosa intendete quando dite che nello spettacolo non vi è una nuova morale e alcuna presa di responsabilità? L’originale termina con loro due che dopo aver perso il figlio riflettono e cercano un modo per riscattarsi, da artisti contemporanei questo finale era troppo moraleggiante e quindi abbiamo deciso di non dare una vera e propria morale , una risposta rispetto alla situazione attuale della convivenza all’interno dell’unione europea ma c’è soltanto una presa di coscienza di quelle che sono le posizioni in campo. Il nostro teatro non si pone l’obbiettivo di dare una morale ma solo di osservare dal punto di vista emotivo e analizzare il tessuto emotivo.
Che tipo di influenza credete abbia il teatro riguardo temi di questo genere? I messaggi non sono un obbiettivo ma ciò che avviene malgrado il teatro, il teatro non si pone l’obbiettivo di trasmettere messaggi ma lo fa involontariamente. Nel nostro modo di fare teatro c’è sempre quel limite sottile tra la tragedia e la commedia quel corto circuito che tiene legato lo spettatore e lo porta a ridere e a chiedersi perché sta ridendo, questa è la nostra cifra quello che cerchiamo di portare avanti nei nostri spettacoli e con la nostra arte.
Che significa voler fare l’attore al giorno d’oggi? Quali sono gli ostacoli? E’ una professione possibile? Significa ogni giorno confrontarsi con la scelta che si è pensato di fare dell’arte un mestiere che la difficoltà maggiore è fare i conti con la spicciola sopravvivenza che comporta, dal punto di vista artistico vuol dire porsi sempre delle domande in un contesto che spesso vuole più avere delle risposte che aiutarti a porti sempre domande, per noi il bello è appunto porsi domande nuove replica dopo replica, cosa che il sistema dovrebbe incentivare maggiormente piuttosto che cercare di inquadrarli in un range di prodotti a loro offerti per garantire a tutti una liberà di ricerca per fare del bene al teatro a noi e agli spettatori.